Ultima modifica: 6 Maggio 2020

Ciao Fabrizio

In-segnare. In-cidere. In-contrare.

In-segnare. In-cidere. In-contrare. “Facciamo il lavoro più bello del mondo”: sento ancora la voce, allora di uno sconosciuto, intercettata al bar in uno dei miei primi giorni al Lussana. Correva il 1995. Mi scandalizzai, io mi battevo per il riconoscimento anche economico del nostro ruolo marginale. La fortuna di lavorare sempre nella stessa sezione mi diede il tempo per capire. Che quel ruolo ce lo si guadagna biograficamente. Nella scrittura di vita che riusciamo a mettere in gioco, nella relazione corporea, fatta di voce, di sguardi, di pensiero e di ragione appassionata. Il professor Persico ce l’ha fatta. Se così tanto ancora parlano le voci di chi in tutti questi anni non ha mai abbandonato la relazione maestro-studente, dei tanti che da così tanto continuano ancora a confrontarsi con lui, nel mezzo e alla fine di percorsi di eccellenza nelle più grandi università o nelle svolte non sempre facili di quella strada che porta all’autonomia adulta.
Lui, nel mezzo delle sue altre vite, sempre disponibile e affidabile in questo ruolo a oltranza.
I suoi maestri sono stati Carlo Sini, Franco Fornari, Riccardo Massa. E da loro ha preso la capacità di sapere trasmettere la filosofia come metodo, di pretendere un apprendimento di alto livello, di avere come obiettivo la formazione dell’uomo. Convinto che occorresse oggi più che mai una scuola seria e difficile, perché solo in questo paradosso anche chi fa più fatica possa trovare in sé, dentro i suoi ritmi, la capacità di migliorare e avanzare.
Per questo nutriva la venerazione per “l’ora di lezione”, guai agli assenti, titolo poi di un libro fortunato di Recalcati. E non gli bastava, se ampliava il fare scuola anche negli incontri del pomeriggio a leggere e commentare grandi saggi contemporanei -affollati di studenti che non chiedevano altro se non la bellezza del capire-, nelle discussioni seduti ai piedi della reggia di Agamennone, nelle pizze con film o senza, nella corrispondenza tenacemente e profondamente ancorata al Bene che è la scrittura, materia leggendaria delle sue terze liceo.
E infine nel sogno ambizioso e realizzato a metà di creare un luogo dove i migliori studenti di questa Italia così dimentica di cultura potessero fare ricerca o confrontarsi con le voci più interessanti della cultura.
Citava Max Weber: era meglio morire sazi della vita, e non come noi stanchi della vita. Lui è morto prima di correre questi rischi. Ma ha lottato per cinquantasei giorni, tanto voleva continuare quel che aveva iniziato.
Ha saputo accendere il fuoco del desiderio che è alla base di ogni conoscenza nei molti studenti che lo hanno amato e che ora inondano di messaggi e di ricordi il vuoto che sentono. Al punto che abbiamo pensato di creare un link su cui è possibile lasciare la propria testimonianza (un testo, un’immagine, un audio), una specie di archivio. Ma la sua traccia è più profonda e continuerà a parlare a molti. Direi “per sempre”, non fosse che mi ha insegnato lui, da filosofo, a non pronunciare quell’avverbio. Ma io insegno letteratura.
A.P.

 

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